Articolo pubblicato su MicroMega il 19 dicembre 2017
Il fatturato dell’industria della guerra torna a crescere grazie alla ripresa della corsa globale agli armamenti iniziata dopo l’11 Settembre ma frenata dalla crisi economica. Dopo cinque anni consecutivi di flessione, il giro d’affari dei produttori di armi è tornato a salire nel 2016 raggiungendo i 375 miliardi di dollari, quasi il due per cento in più rispetto all’anno precedente e – dato forse più indicativo – il 38 percento in più rispetto al 2002.
Lo certifica il prestigioso Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (SIPRI), sottolinenando come ciò sia dovuto non solo all’aumento del commercio internazionale di armamenti verso le aree di tensione, ma anche alla crescita della spesa militare in armi dei Paesi produttori.
Nella Top Ten della classifica mondiale del settore bellico svettano, come sempre, i colossi industriali americani Lockheed Martin (con oltre 40 miliardi di dollari commesse, trainate da quelle dei cacciabombardieri F-35), Boeing, Raytheon, Northrop Grumman, General Dynamics e L3, assieme alla britannica BAE Systems, alla transeuropea Airbus e all’italiana Leonardo, al nono posto con 8,5 miliardi di fatturato.
Quasi il 60 percento delle armi vendute nel mondo nel 2016 è ‘Made in USA’, il 10 percento è di fabbricazione britannica, il 5 percento francese, il 4 percento transeuropea, quasi il 3 percento italiana, oltre il 2 percento israeliana, altrettanto giapponese e sudcoreana, l’1,6 percento tedesca. Complessivamente la produzione di aerea NATO rappresenta circa l’82 percento del totale: un’enormità se paragonata al 7 percento delle armi vendute di fabbricazione russa. Attenzione: per impossibilità di accesso a dati certi, il SIPRI non prende in considerazione la vendita di armi ‘Made in China’, in fortissima crescita sia sul mercato nazionale (la spesa militare cinese è triplicata tra il 2002 il 2016) che internazionale (le aziende Avic – aeronautica – e Norninoco – sistemi terrestri – potrebbero rientrare nella Top Ten).
Il dato su Leonardo e sull’industria militare italiana meritano un approfondimento.
Il fatturato 2016 dell’ex Finmeccanica, riportato dal SIPRI in calo dell’8 percento rispetto all’anno precedente, va letto assieme al boom delle commesse 2016 (20 miliardi di euro, più 61 percento rispetto al 2015) dovuto principalmente ai 28 cacciabombardieri Eurofighter ordinati in quell’anno dal Kuwait (solo questi rappresentano 4 miliardi di fatturato in più).
Anche la percentuale di armi ‘Made in Italy’ vendute nel 2016 (3 percento) è un dato che va letto in combinato con quello del formidabile incremento delle commesse internazionali ricevute in quello stesso anno dalle aziende militari italiane (14,6 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2015, un valore quasi sestuplicato rispetto al 2014). E qui, al di là del dato economico – già di per sé notevole – c’è quello politico: i principali clienti dell’export militare italiano sono diventati i governi nordafricani e mediorientali (60 percento delle commesse totali 2016 per un valore di 8,6 miliardi, contro lo scarso miliardo dei due anni precedenti), compresi Paesi in guerra verso i quali la legge italiana (la 185 del 1990) vieta ogni fornitura. In particolare l’Arabia Saudita (sesto principale cliente italiano), cui l’azienda italiana RWM Italia di Domusnovas, in Sardegna, ha venduto tonnellate di bombe aeree, impiegate nel sanguinoso conflitto in Yemen anche su obiettivi civili come denunciato dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani. Tra gli altri clienti spiccano altri Stati in guerra permanente come Iraq e Turchia.
Infine una considerazione, doverosa, sull’aumento delle vendite di armi guidato non dall’export bensì dal cosiddetto procurement militare nazionale: il rapporto del SIPRI cita, riguardo all’Italia, l’aumento del fatturato 2016 di Fincantieri (1,7 miliardi, più 7 percento rispetto all’anno precedente) dovuto alla vendita di navi da guerra alla US Navy ma anche alle commesse ricevute dalla Marina Militare italiana: dalle fregate FREMM ai nuovi sottomarini classe Todaro, per non parlare della nuova portaerei Thaon di Revel.
L’aumento generalizzato della spesa in armamenti è molto ingente nel nostro Paese: secondo l’Osservatorio MIL€X sulle spese militari italiane la spesa complessiva italiana in armamenti prevista per il 2018 ammonta a 5,7 miliardi, più 7 percento rispetto all’anno precedente, più 13 percento negli ultimi tre anni, addirittura più 88 percento nelle ultime tre legislature. Miliardi che, ad eccezione di quelli versati finora a Lockheed Martin per gli F-35, vengono trasferiti in gran parte dalle casse dello Stato a quelle di Leonardo, Fincantieri e Fiat-Iveco, per l’acquisto di armamenti più utili ai profitti di queste aziende che alle reali esigenze di difesa nazionale.