di Sofia Basso. Giornalista, ricercatrice dell’Unità Investigativa Greenpeace – per Confronti
Archiviata la stagione dei misteri di Stato, nella politica italiana rimane un grande “non detto”: il nostro ruolo nella condivisione nucleare NATO (nuclear sharing). Anche se l’Italia non lo ha mai ammesso, il nostro Paese ospita circa 40 bombe nucleari americane e le nostre Forze armate si esercitano regolarmente al loro impiego. Le ONG che monitorano gli arsenali atomici hanno calcolato che in Europa siano rimaste circa 150 testate delle 7.300 schierate durante la Guerra fredda. Di queste, 20 si trovano nella base militare di Ghedi (Brescia) e altrettante nella base di Aviano (Pordenone). Tutto ciò, secondo molti commentatori, rappresenta una grave violazione del Trattato di non proliferazione, che dal 1970 vieta ai Paesi “non nucleari” di procurarsi armi atomiche. A breve, inoltre, questi ordigni saranno sostituiti da bombe più moderne e sofisticate: le B61-12. Ovviamente, sempre senza alcuna comunicazione ufficiale.
Eppure, la presenza di armi nucleari comporta enormi rischi per la popolazione e l’ambiente. Come raccontato a Greenpeace Italia da un ex valutatore NATO, e riportato nell’inchiesta Il prezzo dell’atomica sotto casa, anni fa il Ministero della Difesa ha illustrato ai responsabili della sicurezza nucleare il danno potenziale di un attentato terroristico contro i bunker atomici di Ghedi e Aviano, rivelando che il fungo radioattivo avrebbe raggiunto dai 2 ai 10 milioni persone, a seconda della direzione di propagazione del vento e dei tempi di intervento. Una vera strage.
La deflagrazione nucleare potrebbe essere innescata anche da un incidente. Negli ultimi decenni, Hans M. Kristensen, esperto di armi nucleari per l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) e la Federazione degli scienziati americani (FAS), ha reso pubblici numerosi documenti confidenziali che segnalavano problemi di sicurezza nei caveau nucleari europei: «Gli Stati Uniti correggono i difetti che trovano – ha precisato in un’intervista a Greenpeace – ovviamente non possono risolvere i problemi che non conoscono». Fino al 1997, ad esempio, non sapevano che se un fulmine avesse colpito l’hangar dei caccia mentre la bomba era priva della sua protezione sarebbe aumentato il rischio di reazione atomica. Nell’eventualità di un conflitto contro i Paesi NATO, inoltre, le due basi “nucleari” del Nord Est si troverebbero a essere dei bersagli.
Se i rischi dell’atomica sotto casa non accennano a diminuire, gli stessi sostenitori della deterrenza nucleare faticano a indicare con chiarezza quali siano – in un contesto di minacce sempre più asimmetriche – quei benefici delle testate schierate in Europa che non possano essere conseguiti con le armi nucleari “strategiche” di stanza negli Stati Uniti. Alcuni esperti descrivono l’eventuale attacco nucleare NATO come una “missione dei sette miracoli consecutivi”: quasi impossibile, cioè, da portare a termine con successo. Ma il governo italiano tira dritto, e le poche mozioni parlamentari che mettono in discussione il nuclear sharing vengono immancabilmente bocciate.
Eppure, tutte le volte che vengono interpellati, gli italiani si sono dimostrati nettamente contrari alle armi nucleari. Un recente sondaggio commissionato a Ipsos da Greenpeace rivela che l’80% degli intervistati è contrario a ospitare bombe atomiche e ad avere cacciabombardieri in grado di sganciarle. Quasi plebiscitario (81%) anche il sostegno al Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPNW), che punta alla “completa eliminazione” delle armi nucleari, come “unico modo per garantire che non siano mai usate in nessuna circostanza”. Con 51 ratifiche e 86 firmatari, il Trattato entrerà in vigore il 22 gennaio 2021, dopo aver raggiunto il traguardo delle 50 ratifiche il 24 ottobre.
Ma l’Italia non sembra aver alcuna intenzione di aderire. In linea con i partner NATO, ha preso le distanze dai lavori ONU sin dall’inizio. Come ha spiegato alla Camera un sottosegretario dell’esecutivo Gentiloni, è stato «ritenuto inopportuno sostenere iniziative suscettibili di portare a una forte contrapposizione in seno alla Comunità internazionale». Ancora più dura la posizione del Governo giallo-verde (Conte I), che ha addirittura sollevato «dubbi circa la reale capacità del Trattato di porsi quale strumento di disarmo nucleare irreversibile, trasparente e verificabile».
Recentemente alcuni senatori di M5S e LeU sono tornati a sollecitare l’adesione del nostro Paese al TPNW. Da Palazzo Chigi, però, nessuna risposta. Eppure, quando nel 2017 ICAN – la Campagna internazionale per abolire le armi nucleari – aveva chiesto ai parlamentari di tutto il mondo di impegnarsi per l’adesione del proprio Paese, dall’Italia erano arrivate circa 250 firme di deputati e senatori, essenzialmente PD, M5S e LeU, cioè le forze attualmente al governo. Alcuni firmatari hanno oggi incarichi di primo piano, come il Presidente della Camera Roberto Fico e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Nonostante ciò, la Farnesina rimane critica sul TPNW. In una nota inviata a Greenpeace, il ministero degli Esteri ha espresso il timore che «il Trattato per la proibizione delle armi nucleari – piuttosto che contribuire all’obiettivo comune – rischi invece di acuire la contrapposizione in seno alla comunità internazionale».
Oltre a mettere a repentaglio la sicurezza di tutti, le testate atomiche hanno costi altissimi e in costante crescita. Anche l’Italia ha il suo budget nucleare. Ma, a differenza degli USA, non lo rende noto. Una prima, e prudente, stima condotta dall’Osservatorio Milex nel 2018 ha calcolato che i costi direttamente riconducibili alla presenza di testate nucleari sul suolo italiano oscillano tra i 20 e i 100 milioni di euro l’anno. A questa cifra, vanno aggiunti i costi per sostituire i vecchi Tornado impiegati a Ghedi per i compiti nucleari con i famigerati F-35. Secondo fonti interne, proprio l’esigenza di rendere i nuovi cacciabombardieri compatibili con le bombe nucleari avrebbe spinto l’Italia a scegliere i costosi jet a stelle e strisce, invece dei più economici Eurofighter, che però avevano costi di adattamento alle testate USA molto alti.
Nell’ipotesi che l’Italia riservi ai compiti nucleari venti F-35A, i costi per comprarli e utilizzarli per trent’anni si aggirano attorno ai 10 miliardi di euro. Di fronte alla scelta su come impiegare questa somma, solamente il 5% degli intervistati da Ipsos ha indicato la necessità di «avere dei cacciabombardieri di ultima generazione da destinare alle missioni nucleari». Il 95% del campione ha invece optato per altri impieghi, dal sistema sanitario (35%) al sistema economico e al lavoro (34%), fino al sistema scolastico (16%). Un verdetto inequivocabile. «Un pianeta sempre più instabile è più sicuro senza armi nucleari», dice Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia. «È tempo che l’Italia prenda una posizione chiara e definitiva sulle armi atomiche, chiedendo il completo ritiro delle bombe americane dal proprio territorio e ratificando il TPNW, un accordo storico che ci lascia sperare in un futuro di pace, finalmente libero dall’incubo dell’olocausto nucleare».