La Camera impegna il governo a spendere il due percento del Pil in difesa, ma senza una corretta allocazione dei fondi la forza militare italiana non potrà davvero crescere. L’Italia ha investito molto negli ultimissimi anni nell’acquisto di armamenti, ma ha dedicato poche risorse all’addestramento del suo personale. Gli interessi dell’Italia sono diretti principalmente verso il Mediterraneo, ma quest’area non è di primaria importanza nella dottrina strategica russa.
Articolo di Futura d’Aprile per Domani
L’approvazione da parte della Camera di un ordine del giorno che impegna il governo a investire il due per cento del Pil in difesa è stata accolta positivamente dalla maggioranza dei partiti, ma un aumento dei fondi non basta per rendere un esercito più forte né a contrastare la crescente assertività della Russia nell’Europa orientale, area di diretto interesse della Federazione ma poco rilevante per l’Italia.
Per comprendere la reale portata della decisione della Camera è invece necessario valutare il modo in cui tali fondi sono stati investiti fino ad oggi e analizzare il quadro strategico di riferimento dell’Italia. Tutte informazioni contenute nei Documenti programmatici pluriennali (Dpp) pubblicati dal ministero della Difesa.
Lo stanziamento del due per cento del Pil per la Difesa era stato indicato tra gli obiettivi dalla Nato già nel 2014 durante una riunione degli Alleati in Galles, ma ad oggi l’Italia non ha ancora raggiunto tale cifra nonostante un aumento della spesa registrato negli ultimissimi anni.
Dal 2015 al 2019, i governi italiani hanno investito circa l’1,2 percento del Pil nel settore difesa, ma nel 2020 e 2021 si è passati rispettivamente all’1,38 e all’1,41 percento, con una previsione di spesa per il 2022 pari all’1,37 percento. Un dato che secondo i calcoli dell’osservatorio Milex sarebbe stato invece al rialzo anche nei prossimi anni, ancor prima che si optasse per l’innalzamento fino al due percento della spesa militare.
Ciò che però conta non è solo la somma stanziata per la difesa, ma anche il modo in cui i fondi riservati al settore militare sono realmente investiti. Le tre grandi voci della Funzione difesa, la sezione del Bilancio che riporta le spese effettivamente destinata alle forze armate, sono divise in personale, investimento ed esercizio: il primo comprende stipendi, contributi e pensioni, il secondo la spesa per gli armamenti, mentre il terzo indica i fondi destinati anche all’addestramento delle truppe.
Tre voci non del tutto bilanciate e su cui era già stato chiesto di intervenire nel 2012 con la cosiddetta riforma Di Paola, che delegava il governo a revisionare lo strumento militare nazionale.
Dieci anni dopo, però, gli obiettivi prefissati non sono stati del tutto raggiunti. La spesa per il personale (pari al 62 percento) è ancora troppo alta, mentre resta bassa quella dedicata all’addestramento (il 14 percento rispetto ad un target del 25 percento).
Solo la cifra riservata nel 2021 all’acquisto di armamenti e alla ricerca e sviluppo è in linea con gli obiettivi prefissati, risultando persino superiore rispetto alla mediana Nato e agli investimenti di Francia e Regno Unito per l’attività di procurement.
Secondo i dati dell’osservatorio Milex, tra il 2021 e gli inizi del 2022 il ministero della Difesa italiano ha chiesto al parlamento l’approvazione di 31 programmi di riarmo per un valore di 15 miliardi, con un onere complessivo in proiezione di oltre 30 miliardi.
L’Italia dunque ha investito molto nelle attività di procurement, ma non sufficientemente nell’addestramento dei soldati. Un problema quest’ultimo che, stando a quanto contenuto nel Dpp 2021-2023, si presenterà anche nei prossimi anni dato che non è previsto un miglioramento della situazione finanziaria del settore dell’esercizio, considerato tuttora «critico» dal ministero. Se le spese militari dovessero raggiungere il due percento, si potrebbe assistere ad un aumento dei fondi destinati all’esercizio a partire dal 2023, ma ad oggi non ci sono indicazioni in merito.
La richiesta di aumento della spesa per la difesa è stata inserita all’interno del decreto Ucraina, ma il rafforzamento militare dell’Italia è solo indirettamente legato alla Russia. Il quadro strategico di riferimento di Roma resta il Mediterraneo allargato, teatro che non rappresenta invece una priorità per Mosca.
Le mire della Federazione russa, come dimostra la guerra in corso, sono dirette verso l’Europa orientale, mentre il Mediterraneo è inteso principalmente come un’area in cui essere presente per interferire con gli interessi degli Usa e degli stati europei o dove installare basi da cui proteggere altre aree di maggiore interesse grazie ai sistemi di difesa aerea integrata a lungo raggio Anti accesso/Negazione d’area (A2/AD).
La Russia dunque è attiva direttamente o indirettamente con la compagnia Wagner in diversi paesi del nord Africa e del medio oriente, ma l’area mediterranea non è di primaria importanza nella dottrina strategica russa.
Da qui la scelta della Nato di rafforzare il fianco orientale dell’Alleanza, minacciato dalla crescente assertività di Mosca, a discapito di quello meridionale, maggiormente complesso a causa della molteplicità degli attori statati e non statali attivi nell’area. Una molteplicità che la stessa Russia ha sfruttato a suo favore, favorendo soggetti autoritari il cui contrasto richiederebbe risorse diverse da quelle prettamente militari.