Non solo la guerra è tornata in Europa, ma anche le armi stanno tornando ad assumere un ruolo sempre più centrale nei calcoli di bilancio dei paesi del Vecchio continente. Con l’invasione russa dell’Ucraina anche chi storicamente si era tenuto fuori dalla corsa agli armamenti, come la Danimarca e la Svezia, sta ridefinendo la propria filosofia sugli investimenti in difesa, mentre per gli altri, come l’Italia, si registra un’impennata delle già massicce spese nel settore dell’industria bellica.
In realtà però, a parte alcune eccezioni, l’aumento della spesa militare è un trend che viene da più lontano, sconnesso o semmai solo accentuato dagli avvenimenti ucraini. “Quella che viene chiamata ‘corsa alle armi’ in realtà era già in moto, oggi si guarda alla guerra in Ucraina solo per trovare una nuova giustificazione che però non ha consistenza”, spiega a Wired Francesco Vignarca, analista e fondatore dell’Osservatorio Mil€x sulle spese militari.
Il 24 febbraio scorso la Russia ha invaso l’Ucraina e dato il via ai bombardamenti aerei sulle principali città del paese. La reazione internazionale non si è fatta attendere, ma se tra le alternative in ballo c’era quella di un intervento militare diretto a guida Nato con cui difendere lo stato aggredito, la scelta per ora è caduta su altre opzioni. In particolare quella delle sanzioni economiche, che stanno mettendo non poco in ginocchio Mosca, ma anche quella della spedizione di armi a Kyiv.
Questa corrispondenza militare con l’Ucraina, unita alla scoperta più o meno improvvisa che una guerra può scoppiare anche sul suolo europeo, ha fatto tornare la questione delle spese militari, ovvero del suo aumento, al centro del dibattito politico di molti paesi. Il 16 marzo per esempio la Camera dei deputati italiana ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2% del Pil, poi è stata posta la fiducia sul voto in Senato. Una svolta che, secondo i conti attuali, farebbe passare la spesa da 25,8 miliardi l’anno a 38 miliardi l’anno, un incremento parecchio sostanzioso insomma.
A fine febbraio, quando la guerra era scoppiata da una manciata di giorni, la Germania attraverso le parole del cancelliere Olaf Scholz annunciava l’inserimento in bilancio di uno stanziamento straordinario di 100 miliardi di euro per rafforzare l’esercito e una spesa annuale nel settore superiore al 2% del Pil. Anche il presidente della Francia Emmanuel Macron ha prospettato maggiori investimenti nella Difesa mentre la Polonia, dove già la spesa militare supera questa soglia, ha annunciato di voler raggiungere il 3% per l’anno prossimo e raddoppiare gli effettivi del suo esercito.
E la stessa tendenza si registra in paesi che storicamente hanno mantenuto un approccio molto diverso sul tema. La Danimarca dopo decenni di opt-out, una clausola che le permetteva di tenersi fuori dalla partecipazione alle operazioni militari e di difesa dell’Unione europea, ha annunciato un referendum per cambiare lo stato delle cose, mentre anche la neutrale Svezia (che non fa parte della Nato) ha dichiarato di voler incrementare le spese per la Difesa nazionale dedicandoci il 2% del Pil. Il 21 marzo scorso poi il Consiglio dell’Unione europea ha approvato il piano strategico di difesa fino al 2030 (Strategic Compass), che tra le altre cose porterà alla nascita di una sorta di corpo militare europeo che potrà avere fino a 5mila unità e spingerà i singoli stati membri a incrementare e ottimizzare le loro spese per la difesa.
La sensazione comune è che con lo scoppio della guerra in Ucraina gli stati europei e non solo, dopo anni di smilitarizzazione, siano tornati a mettere la Difesa al centro dei loro pensieri. E che il famoso tetto fissato dalla Nato del 2% del Pil da destinare a questo settore stia trovando applicazione solo adesso, dopo essere rimasto per anni lettera morta e aver lasciato l’Alleanza atlantica con buchi di mezzi e risorse. In realtà però le cose non stanno proprio così.
“La spesa militare globale è in costante aumento dal 2001, dopo l’attentato alle Torri Gemelli di New York e l’inizio della cosiddetta guerra al terrorismo a guida statunitense – sottolinea Vignarca -. Da quell’anno a oggi l’incremento complessivo è stato del 90%. Sembrava che questa fase potesse terminare pochi mesi fa con la fine della missione in Afghanistan, invece ora si è trovata un’altra giustificazione per un ulteriore rilancio”. Nel 2020 la quota di spesa militare globale ha raggiunto i 1.981 miliardi di dollari, i dati dell’anno scorso ancora non ci sono ma sicuramente verranno superati i 2mila miliardi di dollari.
“Questa corsa alle armi che va avanti da anni smonta la teoria che bisogna armarsi per essere più sicuri: lo stiamo facendo da tempo eppure non abbiamo ottenuto più sicurezza”, sottolinea Vignarca. “Anche fare riferimento alla minaccia russa non tiene, intanto perché Mosca uscirà da questa guerra molto più indebolita economicamente e militarmente, inoltre la Nato dopo l’invasione della Crimea ha già destinato alle spese militari 5.500 miliardi in più della Russia, 14 volte quanto fatto da Mosca”.
La pressione politica internazionale, l’aumento della paura della popolazione europea con i governi che la assecondano, il lobbying dell’industria degli armamenti stanno però favorendo una nuova impennata delle spese militari in queste settimane, i cui effetti peraltro si vedranno a lungo termine. E Vignarca punta il dito contro il sistema alla base di tutto questo, quel famoso tetto del 2% della Nato considerato un dogma vincolante che però non è tale.
“Questo valore non ha alcuna giustificazione tecnica, nessuno ha mai detto che serve il 2% del Pil per fare determinate cose. Semplicemente quando è stata stabilita questa quota tutti i paesi a parte Usa, Regno Unito e Grecia erano sotto – conclude l’analista dell’Osservatorio Mil€x -. Peraltro è un parametro insensato per essere usato come preventivo: intanto il Pil guarda anche alla ricchezza prodotta dai privati, poi non lo puoi prevedere, non sai quale sarà il Pil del 2022 figurati quello del 2023. È solo un parametro usato in maniera fittizia e strumentale per spingere verso un aumento delle spese militari”.
L’Unione europea non si tira da fuori da questo trend. Dopo un calo costante con la fine della guerra fredda della percentuale del Pil destinata alla Difesa, a partire dal 2015 il dato ha ricominciato a salire. Dal 2014 al 2020 i paesi membri hanno portato il budget per la difesa da 159 a 198 miliardi di euro, un aumento del 25% nel giro di sei anni. L’Italia solo nel 2021 ha presentato ben 31 programmi di armamento nuovi, un record storico sia dal punto di vista quantitativo che, poi, per le risorse già mobilitate con le prime tranche di finanziamento: 15 miliardi di euro, che potrebbero presto diventare 30.