Autorizzata dagli USA una possibile acquisizione di altri 6 droni “Reaper” (oltre a radar, sistemi di puntamento e stazioni di controllo connessi) senza che sia ancora stato trasmesso al Parlamento il Decreto per l’approvazione (obbligatoria). Continua soprattutto la grande opacità sull’armamento dei droni già in dotazione all’Aeronautica Militare.

Le notizie rimbalzate dagli Stati Uniti riguardanti l’autorizzazione ad una possibile vendita (tramite la procedura “Foreign Military Sales”) di velivoli a pilotaggio remoto MQ-9 “Reaper” (Block 5) ha riacceso il dibattito sull’utilizzo di droni militari da parte dell’Aeronautica Militare Italiana. Per comprenderne portata è sviluppi diviene quindi utile e opportuno inquadrare al meglio il procurement militare italiano relativo ai droni. Considerando che non si tratta di una novità assoluta, poiché l’utilizzo di aerei senza pilota è ormai integrato nella Difesa italiana da oltre un decennio.

L’aspetto che ha destato maggiore scalpore è stato soprattutto l’inversione tra passggio formale di autorizzazione statunitense e mancanza del Decreto ministeriale che il Governo deve sottoporre, obbligatoriamente, al Parlamento per una qualsiasi acquisizione di materiale d’armamento. A prima vista ciò potrà sembrare illogico e non consequenziale, ma considerando scopo e dinamiche delle procedure Foreign Military Sales (FMS) messe in campo dal Governo statunitense per controllare la diffusione, anche agli alleati, di propri sistemi d’arma non si tratta di qualcosa di inedito – anche per l’Italia – o addirittura illegale. In definitiva sia l’approvazione di Washington tramite FMS sia il voto parlamentare sono condizioni necessarie per poter procedere alla firma del contratto e successiva concretizzazione del trasferimento del materiale d’armamento. In alcuni casi la distanza tra questi due momenti può essere anche rilevante, lo vedremo dopo, e si può pensare che le richiesta vengano istruite e fatte partire “in parallelo” non sapendo a priori che tempi siano necessari per concludere procedure di una certa complessità. In particolare quando alle considerazioni tecniche (in questo caso probabilmente secondarie, visto che l’Aeronautica Militare italiana già dispone di velivoli UAV operativi sui cieli d’Italia, anche nella stessa configurazione appena approvata) si devono aggiungere valutazioni di natura politica e strategica. Che anche in questo caso sono state effettuate, come si evince dal Comunicato ufficiale della Defense Security Cooperation Agency: “La vendita proposta sosterrà gli obiettivi di politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti migliorando la sicurezza di un alleato della NATO che rappresenta una forza per la stabilità politica e il progresso economico in Europa. La vendita proposta migliorerà la capacità dell’Italia di far fronte alle minacce attuali e future, ampliando e migliorando la flotta di MQ-9 dell’Aeronautica Militare Italiana e promuovendo gli obiettivi di sicurezza e interoperabilità degli Stati Uniti e della NATO. L’Italia dispone già di velivoli MQ-9 Block 5 con capacità di attacco nel suo inventario e non avrà difficoltà ad assorbire questi articoli nelle sue forze armate. La proposta di vendita di questo equipaggiamento e supporto non altererà l’equilibrio militare di base nella regione.
L’attuazione di questa proposta di vendita non richiederà l’assegnazione di ulteriori rappresentanti del Governo degli Stati Uniti o dei contraenti in Italia. La vendita proposta non avrà alcun impatto negativo sulla prontezza della difesa degli Stati Uniti”.

L’accordo con approvazione preliminare del Dipartimento di Stato USA (che fonti della Difesa italiana segnalano al momento come “in fase negoziale”) riguarda sei Ummaned Aerial Systems MQ-9 (Block 5), tre stazioni mobili di controllo a terra (MGCS) per MQ-9, dodici sistemi di puntamento multispettrale AN/DAS-4, nove radar ad apertura sintetica LYNX AN/APY-8 Block 20A con capacità di sorveglianza marittima ad ampio raggio e un (1) sistema di posizionamento globale e navigazione inerziale incorporato (EGI). Per un controvalore totale ipotizzato di 738 milioni di dollari. Si tratta certamente di un contratto rilevante sia per numero di velivoli che per spesa complessiva, ma non siamo di fronte ad una novità o ad un “unicum” per quanto riguarda l’impegno della Difesa italiana nel campo dei velivoli senza pilota, già da diversi anni al centro delle strategie di procurement militare (e quindi della prospettiva tattica-operativa) messe in pista da diversi Governi di Roma. Come Osservatorio Mil€x ci occupiamo di questo rilevante aspetto da anni, anche evidenziandolo specificamente nelle notizie più generali di acquisto di armamenti, e abbiamo dedicato nel 2018 ai “Droni italiani” un report specifico ora in corso di aggiornamento. 

Proprio nel 2018 grazie al nostro Osservatorio si rese evidente la volontà di raddoppiare la flotta di droni cercando di acquisire in maniera esagerata (e poi non concretizzata) dei velivoli P2HH anche a sostegno dell’industria nazionale, mentre nel 2021 le scelte militari hanno focalizzato soprattutto acquisizioni di “loitering munitions”, cioè munizioni a guida remota denominate anche “droni kamikaze”. Più recentemente, ad inizio 2024, il Ministero della Difesa guidato dall’Onorevole Crosetto ha inserito l’acquisizione dei droni armati di classe MALE Astore (prodotti dall’italiana Leonardo) in un pacchetto di procurement militare comprendente anche missili ATACMS. Avevamo sottolineato la rilevanza strategica di questa scelta perché tali velivoli potrebbero divenire i primi senza pilota davvero “armati” per la Difesa italiana, considerando che la versione armata dei Reaper americani non sarà operativa prima della fine del 2025.

Ma proprio questo è il punto cruciale di tutta la questione “droni italiani”, perché al momento non è ancora chiaro quando (il “se” ormai dovrebbe essere acquisito, dopo anni di incertezze) l’Aeronautica Militare avrà davvero a disposizione degli aerei a pilotaggio remoto capaci di attaccare un obiettivo, bombardando con missili. Il passo fondamentale in tale direzione si è avuto a metà 2022, con la decisione di fornire ai droni “Predator” già in uso una cosiddetta “capacità di ingaggio” tramite un programma di acquisizione inserito in un pacchetto di procurement militare presentato al Parlamento a “Camere sciolte” appena prima delle elezioni politiche (investimento totale pluriennale per le prime fasi confermate di oltre 12,5 miliardi di euro e onere complessivo delle successive fasi dei programmi, già prefigurate ma non ancora sottoposte a voto, potenzialmente oltre i 22 miliardi di euro nel corso degli anni di vita dei vari progetti). Il progamma pluriennale votato dal Parlamento senza obiezioni era riferito all’adeguamento dei sensori, dei payloads, degli armamenti e dei sistemi di comando e controllo agli ultimi standards tecnologici per il sistema ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaissance) MQ-9A “Predator B”, con sviluppo complessivo di dodici anni (fino al 2033) e costo totale stimato in 168 milioni di euro (a condizioni economiche del 2022). Il problema è che ad oggi non è chiaro lo stato di avanzamento di questa acquisizione e di conseguenza delle capacità militari di attacco dei droni italiani. Nonostante diverse richieste in tal senso e nonostante la questione sulla “armabilità” o meno degli UAV per la nostra Difesa fosse sul tavolo (con opacità e reticenze informative, dimostrate anche dagli eufemismi utilizzati…) davvero da molto tempo: già dal 2001 l’Italia possiede dei droni americani non-armati per attività di sorveglianza e già dal 2011 aveva richiesto l’autorizzazione all’acquisto di munizionamento per tali velivoli. Inizialmente non concessa, tale autorizzazione è stata invece rilasciata nel novembre 2015 ancora una volta attraverso la procedura di “Foreign Military Sales”, dimostrando quindi che il doppio binario in un certo senso contro-intuitivo descritto in precedenza non è certo una rarità (e in questo caso il tempo di latenza tra la decisione USA e il voto parlamentare italiano è stato addirittura di quasi sette anni!). Nel via libera dato a suo tempo dall’amministrazione statunitense per l’esportazione erano compresi: 156 missili AGM-114R2 HELLFIRE II, 8 missili HELLFIRE II, M36-E8 Captive Air Training Missiles (CATM) e 30 bombe a guida laser GBU-12. Gli articoli non classificati come Major Defense Equipment richiesti includevano 30 GBU-38 Joint Direct Attack Munitions (JDAM), 5 missili HELLFIRE M34 Dummy, 30 GBU-49 Enhanced Laser Guided Bombs, 30 GBU-54 Laser JDAMs, 26 Bomb Racks, 6 kit di armamento MQ-9 e installazione, 13 lanciatori M-299, 2 suite di prova AN/AWM-103 oltre che addestramento/attrezzatura per il personale, parti di ricambio, attrezzature di supporto, pubblicazioni e dati tecnici e assistenza tecnica del governo degli Stati Uniti e altri elementi correlati al programma e al supporto logistico. Per un controvalore totale di circa 129,6 milioni dollari (cifra da considerarsi ulteriormente lievitata nel giro di un decennio). Che si proceda oggi a nuove acquisizioni di nuovi droni MQ-9 “Reaper” senza alcuna chiarezza sullo stato di armamento dei precedenti velivoli in dotazione alla Difesa italiana è alquanto problematico, sia in termini dell’impatto sui costi (di completamento progetto, di nuove acquisizioni, di mantenimento) che per gli aspetti strategici e anche legali connessi alle regole di ingaggio e caveat di utilizzo di tali armi.

Il tutto considerando la sempre crescente rilevanza che i velivoli a pilotaggio remoto hanno acquisito per la Difesa negli ultimi anni. Nel corso della XVIII Legislatura (dal 2019 al 2022) sono stati cinque i Programmi legati ai droni approvati dal Parlamento (dal già citato armamento dei Predator al finanziamento del MALE europeo) per un controvalore complessivo di oltre 2,5 miliardi di euro. Due invece quelli presentati e approvati – entrambi nel 2024 – nella XIX Legislatura, per un controvalore di circa 250 milioni. Decisioni e cifre che testimoniano un impegno importante preso sui droni da vari Governi, che quindi meritano e necessitano un’alta trasparenza e un dibattito più articolato del solo aspetto legato alle tempistiche decisionali.