L’Osservatorio Mil€x sulle spese miliari italiane ha potuto stimare un esborso complessivo, a tutto il 2020, di oltre 8,4 miliardi di euro. Rimane però l’enorme difficoltà di portare a termine il cosiddetto “nation building”.
Joe Biden ha scelto la data simbolica dell’11 settembre per il completamento del ritiro delle truppe statunitensi dal’Afghanistan. Un rientro in patria che sta avvenendo quasi in sordina e certamente senza poter ricorrere alla retorica delle “vittoria”. Secondo una valutazione del Congressional Research Service degli Stati Uniti del marzo 2020 «sotto molti punti di vista, i talebani sono in una posizione militare più forte ora che in qualsiasi momento dal 2001». Secondo le ultime valutazioni disponibili (poi secretate) dello U.S. Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction relative all’ottobre 2018 il governo afghano controllava solo il 54 per cento dei distretti, il numero più basso mai registrato dall’inizio del monitoraggio nel novembre 2015. Dei restanti il 34 per cento veniva valutato come contestato e il 12 per cento sotto il controllo degli insorti.
Dati che certificano un fallimento politico, oltre che militare, in una situazione di conflitto che non è andata per nulla scemando. Negli ultimi cinque anni il 40 per cento di tutte le vittime le civili in Afghanistan derivanti da attacchi aerei sono stati bambini. La maggior parte di queste vittime, il 57 per cento, sono state causate dalle forze internazionali guidate dagli Stati Uniti, e secondo Action on Armed Violence (Aoav) nel 2018-2019 l’esercito americano ha sganciato più munizioni sull’Afghanistan che all’apice dei bombardamenti nel 2011: più di 20 al giorno. Complessivamente, il Costs of War Project ha stimato in 241mila le persone morte a causa della guerra in Afghanistan. Tra esse oltre 2.400 membri delle forze armate Usa e almeno 71.000 civili otre a 78.000 militari e poliziotti afghani e 84.000 combattenti dei gruppi insorgenti. Cifre che non includono le morti causate da malattie, perdita di accesso al cibo, all’acqua, alle infrastrutture e ad altre conseguenze indirette della guerra.
RICOSTRUIRE IL PAESE
In queste ore si è celebrato anche l’addio simbolico da parte del contingente italiano, dopo venti anni di presenza ininterrotta. «Non vogliamo che l’Afghanistan torni a essere un luogo sicuro per i terroristi. Vogliamo continuare a rafforzare questo paese dando anche continuità all’addestramento delle forze di sicurezza afghane per non disperdere i risultati ottenuti in questi 20 anni» ha dichiarato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini in occasione della cerimonia di ammaina bandiera che ha costituito un momento formale cui faranno seguito ancora settimane di operazioni logistiche (condotte anche con aerei presi in affitto). Vista la situazione sul campo sembra più una illusoria frase fatta che una valutazione effettiva. Per i senatori delle commissioni Esteri e Difesa del Movimento 5 stelle (una delle forze da sempre critiche con le missioni militari) si tratta di «una giornata storica per l’Italia» perché conclude una missione che ha visto 53 caduti, centinaia di feriti e mutilati. La richiesta è però quella di non gettare al vento lo sacrificio di vite e risorse e per evitare che l’Afghanistan sprofondi in una nuova guerra civile l’Italia dovrebbe rimanere presente «per la ricostruzione del paese e per una rafforzata cooperazione civile allo sviluppo e per la tutela dei diritti umani».
I COSTI ITALIANI
Ma quanto è stato il costo finanziario diretto della presenza militare italiana nel paese asiatico? Secondo i dati disponibili alla vigilia del ritiro (e quindi con costi ulteriori, soprattutto di natura logistica, da aggiungere al termine del 2021) l’Osservatorio Mil€x sulle spese miliari italiane ha potuto stimare un esborso complessivo, a tutto il 2020, di oltre 8,4 miliardi di euro. Va sottolineato come calcolare in modo preciso ed esaustivo il costo finanziario di una campagna militare all’estero sia esercizio complesso, in quanto ai costi ufficiali “diretti” si aggiungono costi “indiretti” che non sono riportati esplicitamente nei documenti disponibili al pubblico e che sono quindi impossibili da quantificare precisamente.
Partendo dal costo ufficiale della partecipazione alle missioni militari iniziate nel novembre 2001 (Enduring Freedom fino al 2006, Isaf fino 2014, Resolute Support dal 2015) si arriva a 6,77 miliardi di stanziamenti diretti, calcolati a partire dai dati contenuti prima nei decreti di proroga delle missioni militari e successivamente dalle deliberazioni adottate dal consiglio dei ministri ai sensi della nuova legge quadro (la numero 145 del 2016). A tale costo netto occorre aggiungere 720 milioni di euro a sostegno delle forze armate e di polizia afghane (120 milioni l’anno a partire dal 2015) e circa 925 milioni di spese aggiuntive relative al trasporto truppe, mezzi e materiali da e per l’Italia, alla costruzione di basi e altre infrastrutture militari in teatro, al supporto d’intelligence degli agenti Aise, della protezione attiva e passiva delle basi, alla protezione delle sedi diplomatiche nazionali e alle attività umanitarie militari strumentali (Cimic, classificate all’estero, con più realismo, come Psy Ops, cioè guerra psicologica: aiuti in cambio di informazioni). Tali spese generali sono state assegnate al dispiegamento in Afghanistan con una parametrizzazione effettuata sul numero di effettivi assegnati alla missione nel corso di tutti questi anni. La somma porta a una cifra totale di 8.418 milioni di euro a fronte di un sostegno a interventi di cooperazione civile (stanziati nell’ambito delle medesime decisioni governative sulle missioni di natura militare) valutabile in circa 320 milioni di euro, nello stesso periodo di tempo.
«Stiamo davvero parlando di una missione storica sotto molti punti di vista – dice Fabrizio Coticchia, professore associato di Scienza politica dell’Università di Genova ed esperto di questioni di difesa – perché è stato l’impegno più importante delle nostre forze armate dopo la Seconda guerra mondiale. In termini di tempo di impegno sul campo, distanza e ampiezza del dispiegamento, varietà compiti, costi e caduti ha superato certamente anche la missione in Iraq».
I COSTI AMERICANI
Una condizione condivisa anche con chi ha deciso l’intervento, come punto di forza della cosiddetta war on terror: gli Stati Uniti d’America. Secondo un recente studio del progetto “Cost of War” promosso dalla Brown University nei due decenni successivi al 2001 gli Usa hanno complessivamente speso 2.261 miliardi di dollari «l’impegno diretto del Pentagono di 933 miliardi di dollari è stato solo la punta dell’iceberg» ha sottolineato Neta Crawford, professoressa di Political Science alla Boston University e coordinatrice dello studio. «I costi della guerra in Afghanistan devono anche includere quelli della sua escalation in Pakistan, milioni di rifugiati e sfollati, il tributo in vite di combattenti e non combattenti, e la necessità di curare i veterani d’America».
Oltre ai fondi del dipartimento della Difesa specificamente destinati alla missione militare le stime aggiungono 443 miliardi di dollari in aumenti del bilancio di base del Pentagono per sostenere la guerra, 296 miliardi di dollari per la cura dei veterani, 59 miliardi di dollari in fondi messi a disposizione dal dipartimento di Stato e 530 miliardi di dollari di copertura degli interessi sui prestiti necessari a finanziare i 20 anni di presenza in Afghanistan.
Valutazioni molto complesse (e al momento impossibili per il caso italiano) ma che dimostrano come anche per gli Usa si tratti di una delle guerre più costose della storia. Sicuramente si tratta del conflitto più lungo per l’Italia, che può favorire considerazioni importanti anche dal punto di vista militare e strategico, in quanto il rientro a casa dei nostri soldati in realtà significa principalmente un ridispiegamento su altre destinazioni. «L’esperienza in Afghanistan è stata davvero cruciale nel processo trasformazione militare italiana e per l’integrazione con gli alleati della Nato sia operativa che in condivisione di dottrina. Rimane però l’enorme difficoltà di portare a termine il cosiddetto “nation building” in un contesto con attori locali senza legittimità. Un aspetto che dovrebbe servire da lezione per le prossime missioni, anche perché è evidente la mancanza di una narrazione strategica che vada oltre retorica ormai vuota della missione di pace» è la valutazione finale di Fabrizio Coticchia.